Velleda Ceccoli è una nota psicoanalista relazionale americana contemporanea, la cui formazione in psicoanalisi è avvenuta a contatto diretto con i fondatori dell’orientamento della psicoanalisi relazionale.
Oltre ad insegnare psicoanalisi relazionale nella scuola post-universitaria di New York, ha un blog, intitolato “Out of my mind”, in cui scrive articoli su argomenti di interesse psicologico in lingua inglese.
Ho pensato potesse essere interessante tradurre in italiano alcune sue riflessioni che mi sembrano particolarmente importanti.
In questo articolo in particolare, mi propongo di riportare il più possibile fedelmente il suo contributo a proposito del senso di colpa. Tuttavia, essendo il suo un taglio abbastanza specialistico, per chi già ha dimestichezza con alcuni concetti di psicoanalisi, cercherò di renderlo comprensibile a tutti spiegando tra parentesi alcuni passaggi o escludendone altri, stando attenta a non snaturarne il senso.
L’articolo in questione parla per l’appunto di senso di colpa e del suo rapporto con la vergogna.
Scrive Velleda Ceccoli:
“Il senso di colpa è una di quelle emozioni che sono state trascurate in psicologia, se non per essere inteso come un segno che un individuo ha interiorizzato le norme sociali e culturali e sviluppato un senso di empatia verso gli altri.
Freud considerava il senso di colpa come una delle caratteristiche dell’umanità civilizzata, un’emozione importante che segnalava un conflitto interno tra il nostro Io (il nostro sé osservatore) e il nostro Super-io (la nostra coscienza). Spesso tale conflitto nasce a causa di uno scontro tra i nostri desideri e i desideri e le norme della società. Visto in questi termini, il senso di colpa e la nostra capacità di sentirlo, riflettono una interiorizzazione degli atteggiamenti culturali e sociali e la consapevolezza che viviamo in comunità e che dobbiamo moderare la nostra gratificazione personale per il bene di tutti.
Melanie Klein, una psicoanalista britannica e contemporanea di Freud, considerava la colpa come centrale per lo sviluppo emotivo e per la realizzazione da parte dei bambini di sentimenti di amore e odio per i genitori, che, quando interiorizzati, portavano al desiderio di riparazione e alla capacità di vedere l’altro (mamma e papà) come persona separata. In quanto tale, il senso di colpa è un segno di maturità emotiva e una sensazione che segnala la consapevolezza che le proprie azioni hanno un impatto sugli altri”.
[…]
“Molti dei miei pazienti parlano della loro colpevolezza per una cosa o per l’altra – una bugia, una relazione, una meschinità, un atto aggressivo o ostile – e mentre tutti riferiscono di sentirsi male, anche terribili a riguardo, molti di loro non vogliono proprio discuterne […]. I miei pazienti sembrano ritenere che nel tentativo di parlarne, sto cercando di razionalizzare la loro colpa, o in qualche modo di alleviare la loro responsabilità per le loro azioni.
La responsabilità è spesso associata alla colpa. In effetti è inerente all’esperienza della colpa. Quando uno si assume la responsabilità delle proprie azioni, in particolare se quelle azioni hanno avuto un impatto negativo su un altro, si sperimenta un senso di colpa: il tipo di sensazione che inizia nella fossa dello stomaco e ti rode dentro. Allora forse una voce interna inizia a dire “quello non era giusto” o “quello era sbagliato” o “perché l’ho fatto?”. La colpa ha una voce udibile che si riverbera e viene ascoltata solo dalla parte colpevole”.
[Parlando di “parte colpevole”, l’autrice fa riferimento ad un’idea di personalità come costituita da diverse unità parzialmente indipendenti e, in condizioni psicologiche sane, in comunicazione tra loro così da far sperimentare alla persona comunque un senso di unità].
L’autrice spiega che: “Quella voce è molto probabilmente un coro interiorizzato di voci dei genitori e di altre autorità, insieme al nostro modo particolare in cui gestiamo e parliamo a noi stessi. Anche se questa non è una sensazione piacevole, la maggior parte di noi può affrontarla, soprattutto se ci spinge a fare qualcosa che ci consenta di riconoscere le nostre azioni e di provvedere a correggerle. In realtà, la colpa spesso implica il desiderio di fare ammenda e annullare l’offesa.
La situazione è abbastanza diversa quando non esiste la possibilità di riparazione (corsivo mio). Quindi la colpa diventa persecutoria, perseguitando la persona ad ogni giro. Questo perché, senza la possibilità di fare qualcosa che ci permetta di modificare o sistemare la situazione che è stata causata dal nostro comportamento, dobbiamo gestire il nostro sentimento da soli […].
Dove la riparazione non è possibile, ci troviamo di fronte al nostro potenziale distruttivo e dobbiamo affrontarlo da soli. Questo può essere molto difficile e spesso molto doloroso, soprattutto se richiama interazioni dell’infanzia interiorizzate che rimangono piene di vergogna (ed è spesso questo il caso). A quei tempi, il senso di colpa si mescola alla vergogna in una combinazione mortale.
Mentre il senso di colpa ci mobilita verso un’azione riparatrice, quando questa possibilità ci viene chiusa, siamo faccia a faccia con quei comportamenti o parti di noi stessi che detestiamo maggiormente, stati autonomi che sono stati banditi ripetutamente proprio perché non potevano essere riconosciuti ed elaborati nei nostri primi rapporti con i nostri genitori, lasciando un residuo di vergogna che si attiva in altre relazioni”.
[Qui il riferimento è a ciò che accade quando si vive il trauma del non riconoscimento, in cui cioè le persone importanti ci comunicano con il loro comportamento che alcuni nostri modi di essere non sono graditi nella relazione e che dobbiamo soffocarli se vogliamo che la relazione con loro sopravviva. Di questo discuto nell’articolo “C’è trauma e trauma: il trauma con la t maiuscola e i micro-traumi cumulativi“].
“Poiché la vergogna è implicitamente un’esperienza relazionale, produce una consapevolezza di sé-negli-occhi-degli-altri, che diventa il punto focale per il disprezzo e l’odio per se stessi. [Episodi futuri di colpa] richiamano esperienze di profonda vergogna intorno a sentimenti di essere cattivo / terribile / non amabile / spregevole, ecc., e ciò rende impossibile connettersi ad altre parti del sé che potrebbero aiutare a negoziare quei sentimenti. In quei momenti di consapevolezza del sé-negli-occhi-degli-altri c’è solo cattiveria e disgusto di sé, niente di positivo può venire da questi sentimenti. Infatti, ci chiudono e ci isolano dagli altri”.
Si chiede allora la Ceccoli:
“Quindi, come possiamo scendere a patti con i nostri sé cattivi?”
E conclude:
“Quelli di voi che sono lettori dei miei post conoscono già la risposta. Abbiamo bisogno di un altro. O molti altri. Abbiamo bisogno della potenziale regolazione emotiva che le relazioni con gli altri ci offrono per aiutare a mediare la “cattiveria” e ricordarci che siamo molto più di questo.
Molto di più”.
Per la lettura del testo in lingua originale: httsps://www.drceccoli.com/2015/07/on-guilt-and-getting-down-with-our-bad-selves/
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