Una delle domande più frequenti a cui gli psicoterapeuti, ma soprattutto gli psicoanalisti, si trovano a dover rispondere riguarda la durata del percorso di psicoanalisi che si ipotizza di intraprendere o che ci si accinge a cominciare.
È fondamentale sapere che l’ansia e la paura, pur legittime, per l’investimento di tempo e di denaro, possono essere superate tramite il senso di benessere che piano piano ci si rende conto di acquistare o dalla sua prospettiva.
Obiettivi e durata di una psicoterapia
In linea generale, si può dire che sicuramente una cura di tipo psicoanalitico ha una durata maggiore rispetto ad altri tipi di trattamenti, uno per tutti la psicoterapia cognitivo -comportamentale. Quest’ultima infatti si pone come obiettivo quello di estinguere i pensieri o i comportamenti avvertiti come problematici dal paziente. Uno dei metodi utilizzati per raggiungere questo scopo è l’introduzione di strategie ad hoc. Ad esempio, il superamento di un disturbo d’ansia, come la fobia, può essere ottenuto attraverso tecniche di avvicinamento graduale allo stimolo fobico.
Sempre in linea generale, dunque, si può affermare che la psicoterapia cognitivo-comportamentale interviene direttamente sul sintomo e perciò ha una durata più breve.
La psicoanalisi invece opera più nel profondo, cercando di andare a rintracciare i motivi che hanno portato alla formazione di “quel” determinato sintomo, partendo dal presupposto che le manifestazioni sintomatiche non hanno un significato universale, ma acquistano significati specifici per la particolare persona che le sviluppa, che trovano un senso all’interno del suo mondo soggettivo e a partire dalla sua irripetibile storia di vita. La comprensione è, in quest’ottica, più importante dell’eliminazione diretta.
Bisogna tuttavia specificare che oggi non esiste più “una” psicoanalisi e che questo nome racchiude in sé una serie di orientamenti diversi, ognuno dei quali tende a privilegiare uno speciale obiettivo terapeutico e a conferire maggiore importanza a degli aspetti piuttosto che ad altri. È chiaro che la durata dell’analisi non può essere scissa dall’obiettivo terapeutico che ci si prefigge di raggiungere.
La psicoanalisi relazionale, precisamente, opera tenendo in grande considerazione il legame che viene a crearsi tra psicoterapeuta e paziente. Si ritiene infatti che nella relazione terapeutica vengano riattivati i modi caratteristici del paziente – ma anche dell’analista – di vivere le relazioni significative e di organizzare l’esperienza, compresi quelli più disadattivi e fonte di sofferenza per il paziente, che rappresentano il motivo per cui è lì. Non solo il dialogo, nel senso di attenzione a ciò che si dice, ma anche le nuove esperienze che accadono nella relazione hanno il potere di “curare”.
Una cura così intesa mira perciò alla costruzione di modalità nuove e più soddisfacenti di intraprendere e di stare nelle relazioni importanti e di dare significato a ciò che si vive. Questo non vuol dire che le vecchie modalità vengano distrutte, in pratica che della vecchia persona non rimanga traccia. Piuttosto, il cambiamento consiste nell’aggiungere.
Il paziente alla fine della psicoterapia ad orientamento psicoanalitico si sentirà arricchito, sarà in grado di riconoscere i vecchi schemi quando si rimobiliteranno e questa autoconsapevolezza, unita alle nuove capacità acquisite, potrà far sperimentare un senso di benessere e un senso di padronanza che non si immaginavano prima.
Naturalmente un obiettivo così posto, per la sua complessità, richiede un investimento di tempo più lungo.
Quanto dura allora la psicoanalisi?
Non esiste una durata prestabilita, che si adatti a tutti. La durata di ogni singola psicoterapia varia da caso a caso.
Ma occorre fare un’ulteriore distinzione, quella tra interruzione e conclusione.
Interrompere non vuol dire necessariamente essere arrivati al termine del percorso. L’interruzione di un’analisi sopraggiunge più o meno improvvisamente per l’impossibilità a continuare da parte, il più delle volte, del paziente. È plausibile, quando una simile evenienza si verifica, che si sia perso di vista qualcosa, che analista e paziente non abbiano tenuto in giusto conto – o non abbiano lavorato bene su – qualcosa che già da un po’ stava accadendo tra loro e che poi si è concretizzato attraverso questa decisione talvolta irrevocabile.
La conclusione invece comporta che si sia portato a compimento il lavoro ed implica un senso di compiutezza. Non essendo predefinita, essa prende forma spontaneamente. Quando si è giunti verso la conclusione, non è tanto importante chi sia a portare all’attenzione dell’altro l’argomento. Indipendentemente dal fatto che sia lo psicoanalista o il paziente a iniziare a parlarne, è facile che vi sia accordo tra i due che, quindi, congiuntamente, decidono di avviare il percorso verso la fine.
Quando giunge questo momento, nonostante vi sia concordanza, si possono scatenare dei vissuti ambivalenti. Al senso di liberazione, eccitazione per la nuova vita, entusiasmo del provare a farcela da soli, possono accompagnarsi senso di perdita, paura del futuro, nostalgia. Si può perfino avere la sensazione di stare facendo dei passi indietro, di non essere più pronti.
È utile – e terapeutico – dare valore a tutti questi affetti e poterne parlare, in modo che essi trovino la propria collocazione nel puzzle di sentimenti, pur contrastanti, con cui spesso facciamo esperienza degli eventi importanti della nostra vita.