Sostegno alla genitorialità: cos’è e cosa non è
Per capire perché e in che modo è utile, quando si hanno problemi con i figli, il sostegno alla genitorialità cerchiamo prima di tutto di chiarire che cosa non è.
Non è una psicoterapia individuale, dal momento che non si focalizza sull’esperienza in generale del singolo genitore né sulla sua storia di vita passata, pur potendo risultare utile in certi momenti andarla a toccare per capire di più sulla relazione attuale con i figli. Non è una psicoterapia di coppia, poiché al centro del lavoro non è la coppia in sé e nemmeno i conflitti che i due coniugi vivono al suo interno, sebbene questi possano emergere durante i colloqui e possa essere opportuno discuterne. Non è, per finire, una terapia familiare, nel senso che non si interviene sul nucleo familiare nel suo insieme, anche se delle ripercussioni positive su di esso ci si aspetta che possano accadere.
Vediamo quindi che cos’è il sostegno alla genitorialità partendo da un concetto molto semplice, ovvero che l’esperienza che un bambino fa di sé e del proprio mondo interno dipende dal modo in cui il genitore, all’inizio soprattutto la madre, gliela ri-presenta sotto forma di bisogni, sentimenti, intenzioni, così come li ha compresi e li tiene nella mente.
Un esempio
Facciamo ora un esempio pratico tratto da un articolo molto interessante di Arietta Slade. Una madre di ritorno dal lavoro va a prendere suo figlio di due anni all’asilo, dove ha trascorso l’intera giornata, e lo porta con sé al supermercato dove deve provvedere a fare la spesa per la cena. Appena arrivati, il bambino comincia a piagnucolare e a lamentarsi.
Le alternative
Consideriamo la possibile risposta di due madri.
La prima si rende subito conto che il figlio è stanco e vuole tornare a casa, che è anche affamato, che ha sentito la mancanza della mamma e non gli va di andare in giro a svolgere commissioni che ne distoglierebbero l’attenzione da lui. Questa madre si rende conto che i capricci riflettono questi desideri e stati affettivi. Potrà quindi cercare di regolare il disagio del bambino prima che aumenti. Tradurrà in parole il comportamento del figlio mostrandogli di averlo compreso. Gli darà qualcosa da mangiare non appena lui lo chiederà senza preoccuparsi che perda l’appetito prima di cena, perché ha fame ora. Lo tranquillizzerà dicendo che staranno poco al supermercato e, se il disagio del bambino continua ad aumentare, lo consolerà fisicamente, prendendolo in braccio e mostrandogli quello che prova, senza tuttavia dover rinunciare alle proprie necessità reali del momento, bensì equilibrandole con quelle del bambino.
Passiamo invece al comportamento della seconda madre. Lei va in ansia e in collera perché il bambino non vuole seguirla al supermercato e quindi fa poco per regolare il suo crescente disagio. Di fronte ai suoi capricci, si agita subito e rifiuta ogni sua richiesta di cibo, di scendere dal carrello e così via, mentre prosegue imperterrita le sue faccende tra le corsie del supermercato. In breve tempo il disagio del bambino precipita, egli comincia a divincolarsi e a piangere disperato. Al limite della sopportazione, con la presa troppo stretta, lei gli dice che lo sta facendo apposta, che in quel modo le impedisce di fare ciò che deve. Quando tornano alla macchina, sono entrambi stanchi, disregolati e distanti.
Dove sta la differenza tra queste due vignette? La mentalizzazione
La differenza sta sostanzialmente nel fatto che la prima madre è in grado di comprendere lo stato mentale del figlio e di adeguarvi il proprio comportamento. La seconda madre al contrario trova insopportabile che vi sia una differenza tra le proprie necessità e quelle del figlio, che non riesce pertanto a tenere nella mente né a riconoscere come altrettanto comprensibili e legittime. Così finisce per trattarlo male e per attribuirgli intenzioni ostili che non gli appartengono. Il risultato è che il bambino, che al momento si limita a reagire al comportamento della madre, diventerà a sua volta un adulto coercitivo, punitivo e controllante.
Ebbene – possiamo concludere insieme alla Slade – buona parte del lavoro con i genitori consiste nel promuovere in loro la capacità di mentalizzare. Questo in pratica significa cercare di aiutarli a diventare il più possibile come la prima madre e il meno possibile come la seconda, incoraggiandoli a riflettere sul significato e sulle intenzioni e motivazioni sottostanti a quel “cattivo” comportamento del bambino, così come all’intera gamma delle sue manifestazioni.