I comportamenti autolesionistici vanno innanzitutto distinti dai tentativi di suicidio. In questi ultimi, l’autolesionismo è secondario all’atto del suicidio non portato a termine che generalmente si inserisce in un quadro di depressione. I comportamenti autolesionistici invece hanno per lo più uno scopo rivitalizzante per chi li mette in atto, seppure a livello inconscio.
Chiarita questa distinzione e in linea con quanto detto, è bene precisare che nessuno gode a farsi del male, nel senso che è improprio dire che si trae piacere dalla propria sofferenza o autopunizione, come a volte si è tentati di fare. In questo senso non è corretto parlare di masochismo.
Premettendo che qualunque comportamento, normale o sintomatico che sia, per quanto diffuso e comune a più persone, ha per ciascuno un significato personale e affonda le radici nella sua specifica storia di vita, si può in linea generale affermare che i comportamenti volti a procurarsi il dolore fisico (come il ferirsi, il tagliarsi o il picchiarsi da soli) sono un modo per distrarsi dal dolore psicologico, a volte ben più insopportabile. Si tratta infatti di un dolore psicologico che potrebbe essere paragonato ad un terribile senso di morte interiore. Detto cioè in termini più “tecnici”, i comportamenti autolesionistici sono un modo per rafforzare l’importanza del corpo ed ancorarvi il Sé così da riaffermare la sua esistenza.
Questo, com’è immaginabile, si ripercuote pesantemente sui familiari, sottoponendoli a un forte stress e caricandoli di un pesante stato di ansia e di apprensione per la salute sia psicologica che fisica del proprio caro; non a caso, spesso la richiesta di aiuto rivolta ad uno psicologo parte proprio da loro.
Da un punto di vista neurofisiologico, la sensazione di sollievo che si prova quando si è portato a compimento l’episodio autolesionistico dipende dal rilascio, nel sistema nervoso, di sostanze, chiamate oppiacei endogeni, che agiscono sull’individuo inducendogli uno stato rilassato di benessere. Si è visto che il rilascio degli oppiacei endogeni si verifica anche quando si è vicini a qualcuno di importante che reca supporto, per esempio nel bambino a contatto con la mamma.
Perciò, più che al provare piacere attraverso il dolore, il benessere provvisorio che si raggiunge dopo che ci si è lesi fisicamente può essere paragonato allo stato di rassicurazione che si incontra quando si è consolati.
La teoria dell’attaccamento, teoria psicologica che nutre diversi orientamenti di psicoterapia, definisce la vicinanza fisica del genitore responsivo e sensibile e, per estensione, lo stato emotivo che se ne ricava, come “base sicura”. Chi fa nella sua infanzia esperienza di base sicura diventa un adulto in grado di rassicurarsi, di fare affidamento su sé stesso e di chiedere e ottenere sostegno dagli altri, soprattutto nei momenti difficili o quando si è esposti a un certo stress. Viceversa, si andrà alla ricerca di metodi compensatori più o meno insufficienti.
In questo senso, secondo questo modello teorico, atti apparentemente perversi come quelli autodistruttivi tendono a produrre lo stato psicofisico di base sicura – di cui si è carenti – usando il corpo come mezzo per raggiungerla.
È questo il motivo per cui tali comportamenti, invece che estinguersi, tendono a rinforzarsi.
In questi casi è importante che lo psicoterapeuta intervenga per aiutare a trovare strategie alternative, più adattive e in grado di garantire una sensazione di sicurezza più stabile e duratura.