La personalità è innata o acquisita?
Una domanda usuale riguardo al modo in cui si forma la personalità è se essa sia frutto di fattori primariamente costituzionali e intrapsichici oppure ambientali e interpersonali. Nasciamo già con delle “idee innate” o siamo invece una “tabula rasa” su cui l’esperienza imprime il nostro carattere?
A pensarci bene, si tratta del dilemma filosofico che da sempre gli uomini si sono posti e a cui hanno cercato di rispondere dando vita a teorie spesso contrapposte: alcune sostenitrici dell’innatismo, altre a sostegno del ruolo giocato dall’apprendimento.
L’importanza degli occhi di chi guarda
In generale, bisogna dire che le risposte ai quesiti su temi di psicologia fanno fatica a rientrare in categorie nette. Difficilmente è possibile parlare di un argomento tanto complesso ragionando in termini duali o/o. Di solito infatti le varie opzioni a cui siamo abituati a pensare in maniera antitetica non si escludono a vicenda, piuttosto si integrano e si arricchiscono reciprocamente.
Così, per quanto concerne la personalità, le radici della sua formazione possono essere rintracciate nel mezzo, precisamente nell’incontro tra temperamento con base costituzionale, derivante dall’eredità genetica, e ambiente formato dalle persone che si prendono cura del neonato. Così, ad esempio, ciò che risulta vitalità in una determinata famiglia è visto come iperattività, generatrice di ansia o preoccupazione nei genitori, in una diversa realtà familiare; ciò che può essere sensibilità in un dato nucleo familiare è invece segnale di debolezza in un altro. Ed è chiaro che, a partire da quella specifica caratteristica manifestata dal bambino, la sua interpretazione nell’ambiente di cura influenzerà l’atteggiamento dei genitori nei suoi confronti, determinerà il modo in cui lo guarderanno, nonché l’immagine di sé che gli restituiranno.
Più precisamente, dall’incontro tra neonato con il suo temperamento e ambiente circostante si crea un campo intersoggettivo, che è dato dalla interazione tra la soggettività dei genitori e quella del bambino così come si è andata costruendo fino a quel momento. Le interazioni che prendono vita all’interno del campo intersoggettivo influiranno a loro volta sulla personalità in costruzione dei figli.
Da qui derivano schemi o convinzioni emotive (credenze, aspettative) sul proprio modo di essere e sul mondo circostante che determinano l’autostima, l’idea che si ha di sé e il modo di porsi nelle relazioni future, ovvero, in sostanza, la propria identità o la personalità. Da qui deriva altresì l’inclinazione a sviluppare in futuro alcune psicopatologie, quali ansia, depressione (dati i suoi evidenti collegamenti con l’autostima), tendenza ad andare nel panico o altri disagi meno facilmente diagnosticabili ma ugualmente in grado di compromettere lo stile di vita di una persona. Da qui deriva, d’altro canto, la resilienza, ovvero una sorta di protezione psicologica contro gli eventi di vita negativi o traumatici, dallo sviluppare reattivamente disturbi quali appunto depressione, ansia o disturbo post-traumatico da stress.
Bisogna specificare che questo incontro tra temperamento e ambiente esterno avviene già durante la vita intrauterina, infatti è sempre più ampiamente dimostrato che il feto percepisce ciò che avviene nell’ambiente circostante – per esempio può sentire la voce materna attraverso l’udito, così come altri suoni, e risente dello stato d’animo della madre attraverso la placenta – ed ha delle reazioni emotive in risposta a questi stimoli.
Stabilità e cambiamento
Questo naturalmente non significa che tutto si decide nei primi periodi di vita, ma, sebbene le neuroscienze dimostrino che soprattutto nei primi due anni di vita si gettino le basi del futuro modo di essere, grazie alla massima plasticità del cervello, le successive relazioni importanti con altre persone saranno ulteriore occasione di crescita e di cambiamento.
In effetti, quando si parla di personalità, diversamente da quanto accade per la psicopatologia, si pensa a qualcosa di duraturo e di stabile nel tempo. Il che per certi versi è vero. Tant’è che i disturbi di personalità si distinguono da altri disturbi psicologici, rispetto a cui hanno sintomi o caratteristiche comuni, proprio per la loro stabilità temporale. Tuttavia tale stabilità non è impermeabile alle nuove esperienze.
Al contrario, la cristallizzazione in schemi rigidi e poco inclini ad essere modificati sulla base di nuovi vissuti, che magari disconfermano le radicate aspettative, è il segnale di una condizione di disagio che dovrebbe essere approfondita e sbloccata.
La psicoterapia in tal senso si configura come un tipo di esperienza in grado di promuovere il cambiamento laddove la personalità si è eccessivamente irrigidita entro schemi diventati ormai troppo limitanti e fonte di sofferenza. Cambiare in psicoterapia non equivale a stravolgere la propria personalità, ma a trovare le risorse necessarie a vivere meglio e a sviluppare nuovi modi di stare al mondo mentre, parallelamente, quelli vecchi più disadattivi vengono attivamente messi in discussione e ridimensionati.