Senso di vuoto, insoddisfazione, crisi esistenziali e incapacità di essere felici sono tra i disagi emotivi più trattati in psicoterapia, a dire il vero soprattutto in psicoanalisi. Ma non è stato sempre così.
La psicoanalisi è la più antica forma di psicoterapia. Non stupisce quindi che, nel corso dei suoi 120 anni di vita, abbia subìto numerose e profonde trasformazioni. Alcune di esse hanno decisamente un taglio più “tecnico” e riguardano il significato stesso del termine psicoanalisi (ciò che si ritiene sia o non sia un trattamento psicoanalitico) oppure il modo in cui uno psicoanalista lavora, i princìpi a cui si ispira – aspetti che, proprio per il loro carattere specialistico, non verranno trattati in questa sede.
L’unica cosa che forse ha senso accennare qui ha a che vedere con la recente nascita della psicoanalisi relazionale, la cui peculiarità è quella di considerare la relazione un bisogno umano fondamentale e di vedere le relazioni importanti come decisive per la nascita e lo sviluppo della mente – il che ha, ovviamente, delle ricadute sostanziali sul modo di fare lo psicoanalista.
Un cambiamento senz’altro interessante verificatosi nell’ambito della psicoanalisi, dalla sua nascita ad oggi, riguarda la tipologia di disturbi trattati. In origine, gli unici pazienti che entravano di diritto a far parte di coloro che potevano accedere ad una cura psicoanalitica erano i cosiddetti pazienti nevrotici.
Coloro che soffrivano di nevrosi, per semplificare notevolmente, avevano come caratteristica fondamentale quella di essere poco adattati all’ambiente circostante, preda come erano di residui di impulsi e desideri infantili proibiti che dovevano essere addomesticati con l’uso, soprattutto, della ragione.
I pazienti che oggi varcano la porta dello studio di uno psicoanalista sono pazienti molto diversi. Non hanno problemi di adattamento alla realtà circostante, anzi delle volte sono ‘fin troppo’ ben adattati. Che cosa voglio dire con questo? Che a causare in larga parte i loro vissuti di inquietudine esistenziale è proprio l’impossibilità di stare in contatto con le proprie reali esigenze e di esprimerle liberamente.
Quello che queste persone molto presto nella loro vita hanno dovuto imparare – a causa dell’indisponibilità o dell’incapacità delle loro figure accudenti – è che i bisogni degli altri sono più importanti dei propri e che è necessario adeguarvisi (fino a perdere addirittura il contatto con se stessi) se si vuole essere amati. E così continuano ad adattarsi al punto di vista degli altri nella loro vita di adulti, e non importa se questi altri sono altri reali o interni. Oppure provano sentimenti confusi di colpa quando inseguono più autenticamente degli scopi personali.
Alcuni di loro pertanto hanno una vita “normale”: hanno magari un buon lavoro, socialmente riconosciuto, una famiglia o una relazione affettiva stabile. Apparentemente non c’è niente che non vada, eppure non riescono ad essere felici. Perennemente insoddisfatti o inseguiti da un senso di vuoto interiore, di precarietà o di inutilità della propria esistenza. Impossibilitati a gioire per più di pochi attimi.
Simili vissuti possono anche non sconfinare mai in un vero e proprio disturbo psicologico, come la depressione, ma condizionare comunque pesantemente l’equilibrio psichico della persona compromettendone il benessere emotivo.
L’ho annoverata tra i motivi per cui rivolgersi ad uno psicologo, la mancanza di gioia, scrivendo quanto segue:
“Si può avere una vita soddisfacente, fatta di buoni rapporti familiari e ricchi successi lavorativi e, nonostante tutto, avvertire un senso di vuoto o di tristezza diffusa. Ad esempio in ambito lavorativo, per quanto si possa svolgere l’attività prescelta con esiti positivi e con riconoscimenti da parte degli altri, ciò potrebbe non corrispondere ad uno stato d’animo di pienezza ma, al contrario, innescare sensazioni di insofferenza e di apatia. Si potrebbe avere perfino la sensazione di non meritare quello che si ha o di essere uno spettatore esterno della propria vita, come se le cose belle succedessero a qualcun altro.
La mancanza di gioia e l’incapacità di godere di ciò che si fa, si costruisce e si ottiene, pur essendo ciò che si vuole e che è in linea con le proprie inclinazioni, può costituire un importante motivo per approfondirne le cause e per cambiare lo stato delle cose.
L’obiettivo è quello di riuscire a vivere una vita fatta di maggiori coloriture emotive positive, quali entusiasmo, fiducia, senso di libertà, benessere e vitalità”.
(Da “10 motivi per andare dallo psicologo“)
Heinz Kohut, un famoso psicoanalista a cui si deve soprattutto l’importanza attribuita all’empatia, ha definito questo passaggio verificatosi nel tipo di sofferenza trattata dalla psicoanalisi “dall’Uomo Colpevole all’Uomo Tragico”.
Non si può infatti non tenere presente, quando si fa un lavoro del genere, che implica il contatto con la sofferenza delle persone, che è necessario, per poter comprendere davvero e per poter essere efficaci, aggiornarsi continuamente, anche in considerazione dei cambiamenti sociali e culturali, che si riflettono sui vissuti – sempre specifici – dei singoli individui.
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